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Castagni e castagne in Valle Cannobina

In Valle Cannobina vi era una grande produzione di castagne che  fornivano un’importante fonte di sostentamento per la gente del luogo. Ancora oggi si possono ammirare esemplari di maestosi castagni dal diametro del tronco di anche più di due metri che però spesso, non più curati, sono inselvatichiti e soffocati dalla vegetazione.



A Gurro i grossi tronchi cavi, potevano essere usati come ripostiglio per gli attrezzi e, talvolta, i ragazzini ci si nascondevano dentro.



Vi erano tante qualità di castagne: “brune” tipiche di Gurro e Spoccia, qualità dai frutti primaticci; “gavardìn” di Crealla, dai frutti piccoli; “magret” o “magrat”, saporite e dai frutti grossi; “marun”, i marroni che hanno il frutto grosso e saporito; “salvadig” o “salvadag” quelle dei castagni selvatici; “saradana”, qualità dai frutti piccoli; “tempurìf “o “tampurìv”, primaticce; “verda” o “verdi” castagne del tipo marrone.



Le castagne si bacchiavano con il bacchio (racai) o con la pertica (pertiga) in autunno, nel mese di ottobre. I ricci (arisc) venivano raccolti con una specie di molla di legno (giuva) e col rastrello e lasciati in un mucchio (ariscada) ricoperto di felci per far marcire un poco l’involucro spinoso. Dopo 15 giorni circa, si passava al diricciamento (spisà)  con una specie di mazza di legno (spisùk) e con una specie di rastrello che invece del pettine ha un’assicella dentata (batela) per spaccare i ricci e far uscire le castagne.



Le castagne si potevano mangiare come caldarroste facendole abbrustolire nella “brascarola” o si potevano conservare fresche fino al mese di gennaio.



Altro modo di trattare le castagne era quello di farle bollire nell’acqua. Un altro modo ancora era quello di farle seccare in un apposito locale (grà) nel centro del quale si accendeva un fuoco dove si lasciavano consumare lentamente grossi ceppi e tronchi per circa quaranta giorni. Ad una certa altezza sopra il fuoco e per tutta la grandezza del locale, vi era una graticola, fatta con pali di legno ravvicinati o con rami di nocciolo intrecciati, sulla quale si stendeva uno strato di circa trenta centimetri di castagne crude che venivano rimescolate ogni due o tre giorni. Quando la buccia (rula) delle castagne era seccata si passava allo sbucciamento. Si mettevano le castagne ancora con la buccia secca (brot) in un sacchetto piuttosto lungo di canapa che, tenuto ai due capi, veniva sbattuto sopra un ceppo speciale (sep di brot). A Cavaglio si mettevano invece su di un pianerottolo e si sbattevano con un legno (spadigia).



Era importante battere le castagne finchè erano calde altrimenti rimaneva attaccata alla polpa la pellicina (chiamata sgeina a Falmenta e sgoia a Cavaglio).



A Spoccia le castagne si ripulivano dalla buccia nel vaglio (val o vual), raccolte in sacchi di canapa si conservavano nei cassoni.



Le castagne secche e bianche si facevano cuocere e si mangiavano nel latte; a Falmenta le mangiavano anche con l’insalata verde.



Una parte si portava a macinare nei mulini – da Falmenta si andava al mulino dell’Arietta) per fare farina dolce (farina di lavi) che serviva a fare il pane (pan da lavi). Da Falmenta si portavano molte castagne a Dissimo e in cambio si ottenevano patate.



Le castagne si mangiavano a colazione, a cena e quando si andava a lavorare nei campi.



Gli scarti (paieta a Falmenta) venivano ammucchiati e si usavano per mantenere la brace del camino quando si preparava l’acqua per i maiali o per fare il fuoco nella grà.



Le castagne scartate (brutit a Crealla9, cioè quelle piccole, secche. Marce o ancora con la pellicola si davano alle bestie.



Del castagno si usava anche il legno che serviva per fare assi da pavimento, lobbie o tramezzi.


Vecchio castagno

 
Bibliografia:
AAVV Conoscere la Valle Cannobina La moderna editrice, Novara 1977
AAVV Usi e costumi delle genti cannobine  La moderna editrice, Novara 1979
AAVV Luoghi non tanto comuni. Cannobio, il suo lago, la sua valle. Casale Corte Cerro 1985
Bergamaschi C. La vita quotidiana in valle Cannobina nell’ultimo secolo Alberti Editore, Verbania 1997.

A cura di: Daniela Boglioni